"Quando penso a Francesco Fancello lo vedo sempre con quella sua faccia misteriosa di azteco, senza l'ombra di barba, la figura alta e squadrata, gli ultimi tempi magrissima, circondata quasi da una aura ieratica. Non era stato sempre così, ma in quell'inverno del 1943-44 mio marito spesso gli diceva: "Hai una faccia da cospiratore!" e lo canzonava quando credeva di rendersi irriconoscibile tirandosi fino al naso la sciarpa che portava sempre al collo."
Inizia così il ricordo di Fancello che Jolanda Torraca scrisse nel 1983, a tredici anni dalla sua scomparsa e a quaranta da quell'inverno di clandestinità dopo il lungo buio fascista. Lei era stata compagna di vita e di azione di Vincenzo Torraca, l'uomo con cui Fancello ebbe forse il rapporto umano, professionale politico e amicale, più forte. Lo conosceva bene, perciò, e le sue pagine ce lo restituiscono nell'originalità di un protagonista volutamente defilato ma attorniato da unanime affetto e stima.
Francesco Fancello nacque ad Oristano il 19 marzo 1884. Il padre Pietro fu un alto magistrato che arrivò al grado di consigliere di Cassazione; la madre, Giovanna Marchi, si occupò della famiglia tenendone rigidamente le redini attraverso le molte dolorose vicende di alcuni dei suoi figli.
Ebbe tre sorelle e tre fratelli: Maria Giovanna (detta Maria) e Pia furono docenti scolastiche, impegnate a diffondere il metodo montessoriano; Lucia si ammalò giovane di una encefalite invalidante; Salvatore fu medico chirurgo e l'unico ad avere figli; un altro (il cui nome non è stato recuperato) fu aviatore e morì in combattimento durante la Grande guerra; infine Nicolò, di due anni più giovane di lui, che fu decisivo per la sua maturazione politica (assunse da lui il credo sindacalista rivoluzionario, sardista e combattentistico, sebbene i due ruppero quando Nicolò aderì al fascismo proprio in nome di quei principi, una rottura personale totale che nemmeno l'autorità della madre riuscì a comporre). Anche Nicolò si ammalò e dal 1928 fu ricoverato in una "Casa di salute per malattie nervose" per poi essere trasferito nel dicembre 1933 al manicomio provinciale di Roma e poi nel marzo 1935 in quello di Rieti dove morì nel giugno 19441, due anni dopo la morte dell'altro fratello Salvatore. I figli di quest'ultimo (Omiti, Wilbur e Wanda) furono gli unici amati nipoti di Francesco che dedicò loro tutte le cure possibili. Come si vedrà meglio più avanti, si deve a Omiti se le carte qui inventariate sono giunte fino a noi.
La famiglia si trasferì a Roma dalla Sardegna agli inizi del Novecento seguendo le sorti professionali del padre Pietro dopo essere stati a Bologna e Messina (luoghi dove verosimilmente Francesco frequentò il liceo: ma della prima parte della sua vita sappiamo incredibilmente molto poco). A Roma andarono ad abitare in via Aurelio Saffi 93, nel quartiere di Monteverde: fu questa la casa di Francesco per tutta la vita, lì abitò con la madre e le tre sorelle nubili fino all'arresto nel 1930 e poi dall'agosto 1943 fino alla morte (fatti salvi i periodi di lavoro a Palermo e Genova).
A Roma Francesco si laureò in giurisprudenza nel 1906 (proveniente dall'Università di Messina dove si era iscritto nel 1901)2 e intraprese la carriera amministrativa presso il Pio Istituto di Santo Spirito e Ospedali riuniti di Roma: ne era il direttore quando nel 1927 fu licenziato per comportamenti non conformi, di fatto per antifascismo.
Fu interventista e partecipò volontario alla prima guerra mondiale; ufficiale degli arditi, rimase più volte ferito e si guadagnò due medaglie d'argento al valor militare. Di ritorno dalla guerra, aderì al gruppo della rivista «Volontà», animato da Vincenzo Torraca, nel quale si ritrovavano gli esponenti del combattentismo democratico.
Le profonde divisioni nelle file del combattentismo fecero fallire il tentativo di dar vita al partito del rinnovamento. In Sardegna le cose andarono diversamente e nell'aprile del 1921, ad iniziativa di ex combattenti quali Emilio Lussu, Carlo Bellieni e lo stesso Fancello, venne costituito il Partito sardo d'azione.
Gli articoli scritti su «Volontà» e su «Il Solco», organo del partito sardista, testimoniano l'avversione che Fancello mostrò subito nei confronti del fascismo. Quando poi, giunto al potere, il fascismo tentò di inglobare il movimento sardista, Fancello fu, insieme con Bellieni, il più deciso nel respingere ogni trattativa tra il Partito sardo d'azione e i fascisti3. Dopo la soppressione delle residue libertà praticò il suo antifascismo dapprima a livello personale (il che gli costò il posto di lavoro) avvicinandosi poi nel 1929 al gruppo di Giustizia e Libertà fondato a Parigi dopo l'arrivo di Carlo Rosselli ed Emilio Lussu fuggiti dal confino di Lipari.
Da Roma Fancello, con Stefano Siglienti, operò da anello di congiunzione con la Sardegna e con gli esuli antifascisti in Francia. Nel 1927, come si è detto, per il suo manifesto antifascismo fu privato del posto e rimase senza mezzi di sussistenza. Si trasferì allora nei pressi di Montepulciano (Siena), ospite nella tenuta dell'amico Lucangelo Bracci, già finanziatore di «Volontà». Qui svolgeva le funzioni di amministratore e di precettore dei figli del Bracci ed ebbe modo di frequentare uomini di cultura, tra cui il critico d'arte Bernard Berenson e, probabilmente, Piero Calamandrei che a Montepulciano aveva la sua casa di campagna. Al tempo stesso Fancello proseguiva l'attività antifascista, mantenendo i contatti con Roma e la Sardegna e impegnandosi nella diffusione della stampa clandestina.
Il 2 novembre 1930, in seguito alla delazione della spia Carlo Del Re, Fancello venne arrestato insieme con altri aderenti a Giustizia e Libertà tra i quali Ernesto Rossi. Il 27 giugno 1931, insieme a Nello Traquandi e Cesare Pintus, fu condannato dal Tribunale speciale per la difesa dello Stato a dieci anni di reclusione e a tre di vigilanza speciale. Trascorse il periodo di carcerazione in diversi penitenziari, prima a Roma (fino a luglio 1931), poi a Viterbo (fino a marzo 1933), poi a Civitavecchia (fino a novembre 1933) e infine di nuovo a Roma. Amnistiato nel novembre 1935, gli vennero subito comminati cinque anni di confino e inviato a Ponza dove rimase fino al luglio 1939 e poi trasferito a Ventotene. Alla scadenza dei cinque anni, nel dicembre 1940, il confino fu rinnovato per un periodo equivalente4.
Sulle isole Fancello fece parte del ristrettissimo numero di confinati supersorvegliati (quasi tutti giellisti, oltre a Pertini) e fu attivissimo nell'organizzazione dell'attività di studio, specie di economia e diritto5. Ma la sua vera passione culturale fu allora la filosofia, che alimentava con la lettura assidua della «Critica» di Benedetto Croce. A Ventotene contribuì all'impostazione teorica del Partito d'azione e scrisse il romanzo Il diavolo tra i pastori che fu pubblicato nel 1945 da Mondadori sotto lo pseudonimo di Francesco Brundu. Dopo l'arresto di Mussolini e la fine del regime fascista le colonie di confino vennero chiuse e il 12 agosto 1943 Fancello tornò a Roma dopo aver capeggiato il movimento di pressione sul governo Badoglio per una liberazione immediata di carcerati e confinati. A Roma prese subito contatto con i suoi compagni azionisti e in particolare Lussu, Siglienti e Torraca.
Fancello aveva aderito al Partito d'azione quando ancora era a Ventotene, in questo mantenendo il sodalizio con Riccardo Bauer ma non con Ernesto Rossi che iniziò allora con Spinelli la sua battaglia federalista europea. Tornato libero, Fancello partecipò, il 5 e 6 settembre a Firenze, al primo convegno clandestino azionista. Chiamato a far parte, insieme con Bauer, La Malfa, Reale e Rossi-Doria, dell'Esecutivo del partito, fu anche membro della giunta militare del Comitato di liberazione nazionale a Roma.
Era particolarmente impegnato nella stampa clandestina. Ricercato dalla polizia, venne sorpreso dai nazisti nella tipografia dove si stampava il giornale azionista: riuscì ad evitare la cattura con un'avventurosa fuga al contrario di Leone Ginzburg che venne arrestato e finì i suoi giorni a Regina Coeli dopo atroci torture. Sul Fancello dei mesi dell'occupazione nazista di Roma rimane vivida la testimonianza di Jolanda Torraca nell'articolo citato.
Nel dibattito che stava allora animando la vita interna del Partito d'azione Fancello si schierò al fianco di Lussu sulle posizioni filosocialiste. Nel gennaio 1944 scrisse - con lo pseudonimo Francesco Marchi (il cognome della madre) - un opuscolo sui lineamenti programmatici del Partito d'azione, che in sostanza era una definizione del carattere socialista del partito: Il Partito d'Azione nei suoi metodi e nei suoi fini.
Dopo la Liberazione Fancello, nominato membro della Consulta nazionale, non volle assumere cariche di governo, preferendo riprendere il suo posto agli Ospedali riuniti di Roma, di cui venne nominato commissario. Progettò allora un lavoro di memorie del periodo carcerario e confinario (esperienza dalla quale non riuscì mai a staccarsi del tutto) che sarebbe dovuto uscire sul «Ponte» ma che rimase allo stato di prima e incompleta elaborazione.6
Al congresso azionista, che si svolse a Firenze dal 4 all'8 febbraio 1946, Fancello espose le posizioni dell'ala socialista del partito. Nel giugno 1946 venne eletto nel nuovo esecutivo del partito, di cui era divenuto segretario Riccardo Lombardi. Al successivo congresso (Roma, 1-4 aprile 1947) fu tra i principali fautori della trasformazione del partito in una forza socialista. Egli fece quindi parte con Andreis, Calogero e Cianca della commissione azionista che, tra luglio ed agosto 1947, incontrò una delegazione del Partito socialista, composta da Basso, Morandi e Nenni, per verificare la possibilità di una confluenza degli azionisti nel PSIUP (come si chiamava allora il PSI).7 Questo sbocco si realizzò ad ottobre, allorché il Consiglio nazionale del Partito d'azione approvò la mozione Cianca favorevole alla confluenza nel Partito socialista, ciò che generò la definitiva diaspora azionista.8
Il giornalismo politico fu il terreno che Fancello scelse per la sua militanza. Collaborò con l'«Avanti!» per il quale, tra marzo 1950 e agosto 1951, scrisse quattordici articoli sulla situazione politica, quasi tutti di fondo in prima pagina. Dopo brevi esperienze a «L'Ora» di Palermo e nella redazione romana di «Milano Sera» (1952-1954), Sandro Pertini lo volle al quotidiano genovese «Il Lavoro» che egli dirigeva e che di fatto affidò a Fancello con il consenso del segretario Pietro Nenni. Sotto le sue cure il giornale crebbe in prestigio e lettori divenendo qualcosa di più che una edizione genovese dell'«Avanti!».9 Al «Lavoro» rimase fino al 1961 quando lasciò per raggiunti limiti di età.
Oltre ad alcuni articoli e recensioni per «Il Ponte» di Calamandrei apparsi tra 1949 e 1954 bisogna segnalare il suo apporto a «Critica sociale» cui collaborò tra 1965 e 1970 con recensioni di opere storiche e letterarie. Ebbe piacere nel mettersi alla prova come romanziere e novelliere: proprio su «Il Ponte» uscirono alcuni suoi brevi racconti (Il cane, 1951, e Trittico, 1952) mentre nel 1949 era riuscito a pubblicare con l'editore De Carlo il suo secondo romanzo Il salto delle pecore matte. Continuò a scrivere ma non pubblicò più nulla, anche scoraggiato dal giudizio dei Torraca che da esperti manager teatrali (condussero per decenni il teatro Eliseo di Roma) sapevano ben vedere la distanza tra lo stile austero e demodé di Fancello (tutto concentrato sul contenuto sociale della narrazione) e i gusti nuovi del pubblico italiano in un'epoca di veloce modernizzazione del costume. Ma ancora nel giugno 1969, a ottantacinque anni compiuti, Francesco Fancello scrisse alla casa editrice Mondadori perorando la causa di una riedizione del suo primo romanzo Il diavolo fra i pastori.10 Segno evidente di quanto egli tenesse alla sua produzione letteraria. Fancello affidò alcuni suoi manoscritti letterari a Jolanda Torraca che non trovò però editori disponibili. Altri furono conservati dalla nipote Omiti e grazie al suo incontro con il critico letterario sardo Nicola Tanda furono da questi pubblicati nel 1997 con il titolo Adalgisa e altri racconti. Anche in ragione dell'oggettiva scarsità dei documenti che Francesco Fancello ci ha lasciato, sarebbe opportuno recuperare questi manoscritti e ricondurli al fondo qui inventariato. Si segnala che comunque si conserva qui un breve racconto inedito (Dopo il diluvio).11
A partire dagli anni Cinquanta la sua attività fu condizionata dai problemi di salute. Nel 1956 e nel 1957 dovette assentarsi dal lavoro per curare un malattia nervosa, forse dovuta a medicinali sbagliati, che prendeva forme depressive, probabilmente un lascito delle sofferenze patite negli anni della prigionia e del senso di colpa di aver lasciato il resto della sua famiglia senza il suo aiuto in una situazione difficile (una sorella e un fratello con disagi invalidanti, tre nipoti orfani, una madre anziana). Negli ultimi anni rimase sempre di più solo con se stesso, frequentando la sezione socialista di Trastevere dove trovava momenti di vitalità nel rapporto con i compagni. Il 2 febbraio 1970 egli indirizzò alla Direzione nazionale del PSI un telegramma in cui, giustificando per motivi di visite mediche la sua assenza a una riunione, protestò contro un non meglio specificato "provvedimento" che avrebbe alterato "la buona norma statutaria". E concluse: "I vecchi compagni legati alla Resistenza aiuteranno questo sforzo riformatore del buon costume". Sono probabilmente le ultime parole scritte da Fancello in una comunicazione pubblica: egli morirà due settimane dopo a Roma il 19 febbraio 1970 a causa di un tumore di cui soffriva da diverso tempo. Due giorni dopo, a funerali avvenuti, uscì sull'«Avanti!» il necrologio a firma di Pia e dei tre nipoti. Il quotidiano socialista lo ricordò così: "Fino a quando le forze lo hanno sorretto ha continuato la sua milizia nella sua sezione di Trastevere, portandovi intatta la sua carica di fede e la sua umanità grande e profonda". E sembra essere stato questo il suo tratto distintivo. Nei carteggi conservati e nei ricordi degli amici emerge la figura di una personalità dalla forte dirittura morale, carismatica senza pratica di leadership pubblica, molto amata per il calore dei rapporti umani che sapeva intessere. Non amava le cose fatte superficialmente e preferiva tirarsi indietro piuttosto che dare un contributo non ponderato a fondo, in questo probabilmente penalizzato dal suo stato d'animo non sempre sereno.
_____________________________ 1 Ho ricavato i dati consultando la sua cartella clinica nell'Archivio storico dell' Ospedale psichiatrico Santa Maria della Pietà di Roma. Lo si descrive come "temperamento chiuso ma passionale, timido ed eccitabile, di costumi rigidamente morali". 2 Ricavo i dati dal "Registro delle carriere studenti n. 29 - Facoltà di Giurisprudenza" dell'Archivio storico della Sapienza Università di Roma. Ringrazio il suo direttore Alessandro Sferruzza. L'Archivio è impegnato nel recupero dei fascicoli degli studenti e non si esclude di reperire prossimamente quello di Fancello. 3 Sul Fancello "sardista" si vedano le pagine di Giovanni Sabbatucci, L'itinerario politico e culturale di Francesco Fancello, in Omaggio a Francesco Fancello politico, giornalista, scrittore. Atti del Convegno Cala Gonone - Dorgali 26-27 maggio 2000, a cura di Nunzia Secci, Condaghes, Cagliari, 2001, pp. 92-101. 4 Sul confino rimando al mio Il regime fascista di fronte al dissenso politico e sociale, in L'Italia al confino 1926-1943, a cura di A. Dal Pont e S. Carolini, La Pietra, Milano, 1983, pp. XXI-CI. Sulla colonia di Ventotene, in particolare, si veda Filomena Gargiulo, Ventotene, isola di confino. Confinati politici e isolani sotto le leggi speciali (1926-1943), Ventotene-Genova, Ultima spiaggia, 2016, nel quale Fancello è ampiamente citato. 5 La memorialistica carceraria e confinaria e i diversi epistolari di relegati illustri pubblicati consentono una conoscenza di dettaglio "delle opere e dei giorni" di Francesco Fancello nei tredici anni di sua privazione della libertà, sicuramente il periodo della sua vita che meglio conosciamo. In particolare si vedano i due volumi di lettere di Ernesto Rossi citati in bibliografia. 6 Si veda qui serie 2, sottoserie 2, fasc. 9. 7 Il 20 settembre 1947 scrisse a Piero Calamandrei di essere "stretto fra Esecutivo del Partito e Comitato romano, tra conversazioni per l'unificazione e Blocco" (in Istituto storico della Resistenza in Toscana, Archivio Piero Calamandrei, Sezione IV, Sottoserie 4, lettera F, fasc. 4). Consultabile anche sul sito archiviocalamandrei.it. 8 Su tutta la vicenda del Partito d'azione resta principale riferimento lo studio di Giovanni De Luna Storia del Partito d'azione (1942-1947), edito da Feltrinelli nel 1982 e di recente ripubblicato con il titolo Il Partito della Resistenza. Storia del Partito d'azione 1942-1947 (Utet, Milano, 2021). 9 Pertini a Fancello, 29 giu. 1959: "adesso Il Lavoro appare quasi quotidianamente con un fondo "suo" (tuo) originale, cioè non preso dall'Avanti! Ottimamente" (serie 6, fasc. 31). 10 Si veda qui, serie 5, fasc. 1. 11 Si veda serie 5, fasc. 2.
Storia archivistica
Il nucleo principale del piccolo ma rilevante complesso documentario (le lettere che egli spedì alla famiglia dal carcere e dal confino) non è definibile, in senso stretto, "archivio di Francesco Fancello". Le lettere furono indirizzate all'indirizzo della famiglia (madre, sorelle e nipoti), nella sua casa romana di Monteverde. Resta misterioso il motivo per cui non si sono conservate le lettere che egli ricevette dalla famiglia nello stesso periodo (che dovevano ammontare ad alcune centinaia), carte di cui era molto geloso e che verosimilmente riportò a Roma da Ventotene; ne rimangono solo 53.
Le lettere costituiscono un corpus straordinario per la loro consistenza e completezza. Sono una fonte che merita di essere studiata con attenzione e una loro edizione o utilizzo come strumento didattico si inserirebbe in un filone che la storiografia sull'antifascismo ha iniziato a praticare circa venticinque anni fa. Scrive bene Leonardo Rapone:
"Nelle lettere si rispecchiano due dimensioni: da un lato la dimensione umana dell’esistenza individuale, la sfera morale e spirituale, il sistema di valori entro cui si pone l’esperienza politica; da un altro lato l’evoluzione intellettuale, la maturazione del pensiero, il giudizio sul mondo di chi affida le proprie riflessioni alla comunicazione epistolare essendo stato privato del diritto alla comunicazione pubblica. Per questo secondo aspetto le lettere private sono senza dubbio letteratura politica, al pari di quella che si esprime alla luce del sole sulle pagine dei giornali o nei pamphlets; ma anche nei loro risvolti più personali le lettere dei militanti antifascisti sono comunque il documento di un modo di stare nel mondo, di orientarsi rispetto all’incalzare degli eventi esterni, e hanno quindi delle implicazioni che vanno anche in questo caso oltre il mero ambito privato."
Anche per le rimanenti carte giunte fino a noi si deve parlare con tutta evidenza di un lacerto di archivio. Quasi nulla anteriore al 1930 (e si può ipotizzare una distruzione di documenti dovuta alla necessità della azione clandestina: ma nel 1930 Fancello aveva 46 anni e un passato di militanza politica e giornalistica): ma troppo poche anche quelle posteriori all'agosto 1943 vista l'oggettiva rilevanza del ruolo di Fancello e dello spessore delle sue relazioni politiche e professionali.
Vi sono tracce palesi di suoi interventi di sistemazione delle carte: buste di medie dimensioni ricevute come posta e riutilizzate come contenitori di gruppi omogenei di documenti, con titoli suoi pertinenti o appunti da "lavoro in corso", come per una busta "Carte da elaborare" poi cancellata e riusata per fascicolare le lettere di Oronzo Reale. Su alcune di queste buste sono anche presenti numeri a lapis blu, forse segnature provvisorie di qualche elenco andato perso. La maggior parte della corrispondenza conservata si concentra negli anni fra 1955 e 1958, cioè gli anni genovesi de «Il Lavoro Nuovo» (poi «Il Lavoro»), ed è evidente che negli anni precedenti, quelli dell'impegno nel Partito d'azione e nel Partito socialista e poi della definitiva scelta del lavoro giornalistico, la sua rete di relazione sia stata forse anche più ampia.
Fancello interrompe la sua attività lavorativa all'inizio degli anni Sessanta quando ha ormai oltre 75 anni. Come si è detto, la sua salute è malferma, si chiude progressivamente sempre di più, accompagnato dai ricordi di una vita. E non possiamo escludere che quello che ci rimane sia proprio quello che lui, nell’ultima fase della sua esistenza, ha voluto che ci rimanesse, fatte salve le irrimediabili perdite della fase precedente l'arresto.
Scrivendo l'introduzione agli atti del convegno su Fancello tenutosi a cala Gonone nel 2000, Gianfranco Murtas lamentò l'indisponibilità delle "carte domestiche che certo dovranno pur esserci in qualcuna delle residenze dei familiari, sul continente forse più che sull'Isola".2 L'indicazione veniva naturale partendo dalle do-dici lettere di Fancello alla madre pubblicate nel 1962 in Lettere degli antifascisti dal carcere e dal confino.3
Queste carte furono conservate in scatole di cartone insieme a una selezione di volumi appartenenti a Fancello da Omiti Fancello, figlia di Salvatore e nipote di Francesco, nubile e legata da un’amicizia molto forte a una famiglia romana con la quale aveva vissuto per alcuni anni in seguito alla morte dal capofamiglia, assumendo per i figli un ruolo di precettore. Alla sua morte, avvenuta improvvisamente nel 1993 durante un viaggio aereo verso il Brasile, uno dei figli, Marco Acquistapace, si è rivolto all'amico ricercatore Alfredo Martini al quale ha trasferito in via definitiva, d’accordo con la famiglia, tutte le carte, così come i volumi. Martini ne ha dato notizia per la prima volta in una nota apparsa nel 2001.4
La documentazione è rimasta presso Martini fino a quando, d’accordo con Marco Acquistapace, egli ha ritenuto opportuno trovare una collocazione che ne con-sentisse l’inventariazione, la conservazione e la consultazione, considerato l’elevato valore storico della documentazione. La scelta è ricaduta sulla Fondazione Giuseppe Di Vagno per una serie di motivi, enunciati dallo stesso Martini: per coerenza con la vicenda personale e politica di Fancello; per le garanzie di valorizzazione della documentazione e l’affidabilità, relativamente al raggiungimento degli obiettivi di divulgazione e utilizzo pubblico; infine per il rapporto di stima e di amicizia con uno dei consiglieri della Fondazione, Marco Panara, e per la professionalità e la passione di chi cura gli archivi della Fondazione. L'atto di donazione alla Fondazione è stato perfezionato in data 24 gennaio 2022.
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1 L. Rapone, Tendenze della ricerca contemporanea sull’antifascismo, in Sotto il regime. Problemi, metodi e strumenti per lo studio dell’antifascismo, a cura di G. Albarani, A. Osti Guerrazzi e G. Taurasi, Unicopli, Milano 2006, pp. 164-174. 2 G. Murtas, Introduzione, in Omaggio a Francesco Fancello cit., p. 14. 3 Roma, Editori Riuniti, 1962, 2 voll. Le lettere di Fancello sono nel primo volume, pp. 113-124. Per il metodo di lavoro utilizzato da Fancello per selezionare le lettere si veda la nota introduttiva alla sottoserie 2.1. 4‘E tu credi che la condanna richieda la colpa?’ Prime notizie e qualche riflessione sulle lettere dal carcere di Francesco Fancello alla famiglia, in «L'Annale IRSIFAR», 2001, pp. 75-86.
Modalità di acquisizione
Il fondo è stato donato da Alfredo Martini alla Fondazione Giuseppe Di Vagno con atto del 24 gennaio 2022.
Strumenti di ricerca
Inventario a cura di Leonardo Musci (2024).
L'intervento di ordinamento, inventariazione e digitalizzazione delle carte Fancello è stato realizzato grazie a due finanziamenti della Direzione generale Archivi del Ministero della cultura a valere sul capitolo 3121 per gli archivi politici e sindacali (annualità 2022 e 2024) previsto dalla l. 205/2017 (Finanziaria 2018), art. 1, c. 342.
Consultabilità
Libera nei limiti di quanto disposto dal Codice per i beni culturali e del paesaggio (art. 127) e dalla legislazione per la tutela del diritto alla riservatezza e all'identità personale.
Fonti collegate
A nostra conoscenza sono note, oltre a quelle di questo fondo, le carte azioniste donate da Fancello nel 1969 a Maria Luisa Calogero La Malfa e Maria Vittoria De Filippis nel contesto della loro ricerca sul Partito d'azione e da queste poi versate all'Istituto romano per la storia d'Italia dal fascismo alla Resistenza (IRSIFAR). Unica altra traccia alcuni suoi scritti letterari donati a Jolanda Torraca di cui lei fa menzione in Ricordo di Francesco Fancello (in «Archivio trimestrale», 1983, a. IX, n. 4, pp. 662-674).
Bibliografia
Suoi scritti politici: Le autonomie regionali e la riscossa dei contadini, «Volontà», 1921. Il Partito d'Azione nei suoi metodi e nei suoi fini, Roma, Partito d'Azione, 1944. Un'azione fallita di Giustizia e Libertà, in Trent'anni di storia italiana 1915-1945. Lezioni con testimonianze presentate da Franco Antonicelli, Einaudi, Torino, 1975, pp. 177-178.
Articoli pubblicati su «Il Ponte»: Politici e comuni nelle patrie galere, V, 3, mar. 1949, pp. 401-405.
Contributo suo senza titolo in Inchiesta sul Partito d'azione, VI, 8, ago. 1951, p. 909. nel numero dedicato alla Sardegna, VI, 9-10, set.-ott. 1951 Il fascismo in Sardegna, VI, 9-10, set.-ott. 1951, pp. 1090-1103, il suo intervento a p. 1103. Il cane, racconto, ivi, pp. 1378-84. Trittico, racconti sulla vita carceraria, VII, 10, ott. 1952, pp. 1511-18.
Recensione a Francesco Fausto Nitti, Il maggiore è un rosso (Milano-Roma, Ed. Avanti!, 1953), IX, 4, apr. 1954, pp. 646-648.
Recensione a Giacinta Salvadori, Lettere 1933-1941, con introduzione e cura di Max Salvadori (Porto San Giorgio, Tip. Segreti, 1953), IX, 5, mag. 1954, pp. 812-814. Lutto in carcere, sulla notizia della morte dei Rosselli, XIX, 6, giu. 1964.
Suoi romanzi e racconti: Il diavolo fra i pastori, Roma, Mondadori, 1945. Il salto delle pecore matte, Roma, De Carlo, 1949 (poi S. De Carlo, 1950). Adalgisa e altri racconti, prefazione di Nicola Tanda, Sassari, EDES Editrice Democratica Sarda, 1997.
Su di lui:
Jolanda Torraca, Ricordo di Francesco Fancello, in «Archivio trimestrale», 1983, 4, pp. 661-674.
Marina Addis Saba, Il socialismo contadino di Francesco Fancello, in L'antifascismo in Sardegna, a cura di M. Brigaglia, 2 voll., Cagliari 1986, pp. 215-224.
Nicola Tanda, Diavoli, pastori e pecore matte nei romanzi di Francesco Brundu, nel suo Dal mito dell'isola all'isola del mito. Deledda e dintorni, Bulzoni 1992.
G. Sircana, voce Fancello, Francesco, in Dizionario biografico degli italiani, vol. 44, Istituto della Enciclopedia italiana, 1994. Omaggio a Francesco Fancello politico, giornalista, scrittore. Atti del Convegno Cala Gonone - Dorgali 26-27 maggio 2000, a cura di Nunzia Secci, Condaghes, Cagliari, 2001.
Voce Francesco Fancello, in Grande enciclopedia della Sardegna, a cura di Francesco Floris, Newton & Compton Editori, 2002.
Epistolari carcerari/confinari: Lettere degli antifascisti dal carcere e dal confino, Roma, Editori Riuniti, 1962, 2 voll.
E. Rossi, Elogio della galera. Lettere 1930-1943, Bari, Laterza, 1968.
V. Foa, Lettere della giovinezza. Dal carcere 1935-1943, a cura di F. Montevecchi, Torino, Einaudi, 1998.
M. Mila, Argomenti strettamente famigliari. Lettere dal carcere 1935-1940, a cura di P. Soddu, introduzione di C. Pavone, Torino, Einaudi, 1999.
E. Rossi, “Nove anni sono molti”. Lettere dal carcere 1930-1939, a cura di M. Franzinelli, con una testimonianza di V. Foa, Torino, Bollati Boringhieri, 2001.
L. Ginzburg, Lettere dal confino : 1940-1943, a cura di L. Mangoni, Torino, Einaudi, 2004.
C. Pavone, Lettere dal carcere, voce in Dizionario del fascismo, a cura di V. de Grazia e S. Luzzatto, vol. II, Torino, Einaudi, 2003, pp. 28-30.